Dopo alcuni mesi torna la nostra rubrica dedicata alle interviste sul TPL e, per la prima, volta abbiamo superato i confini della nostra regione. Per questo quarto appuntamento abbiamo contattato la redazione del portale CityRailways che da anni si occupa di trasporto pubblico a livello nazionale ed internazionale. A rispondere ai nostri quesiti ecco l’Ing. Andrea Spinosa uno dei due fondatori del sito assieme a Claudio Brignole, già membro storico dell’Associazione Metrogenova. Di seguito la prima parte dell’intervista.
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1) Ing. Spinosa in tempi recenti, a fronte di un bando nazionale nato per finanziare le grandi infrastrutture dedicate al Trasporto Pubblico Locale di massa, Genova ha sorprendentemente puntato sul filobus, restando forse l’unica città europea sopra i 500.000 abitanti a non avere il tram. La scusa è stata quella di voler coprire tutta la città in un sol colpo, cosa che non sarebbe stata possibile nel caso si fosse scelto il tram, anche se in realtà appare più come un tentativo di salvare AMT mantenendola in house. Tale decisione ha provocato incredulità da parte della maggioranza dei genovesi (in campagna elettorale sedotti con la promessa del tram) ma, vista da lontano, che tipo di valutazioni suscita?
Il problema è che in Italia il dibattito intorno alla mobilità urbana, non è mai maturato ma è rimasto bloccato ad un livello infantile. Ci avviciniamo ai trent’anni della ex legge 211/92, il primo strumento di finanziamento dedicato al trasporto rapido urbano dal tempo delle dismissioni degli impianti esistenti nel Dopoguerra sotto la forte spinta della motorizzazione di massa. Una spinta che doveva liberare la strada: per questo la motorizzazione era (apparentemente) amica delle metropolitane e degli autobus. Perché mettere i treni sottoterra, togliere binari e fili per i nuovi autobus – che all’occorrenza possono scansarsi, anzi devono scansarsi perché troppo lenti – risponde proprio all’esigenza di liberare la strada per dedicarla all’automobile. Ora, che ci siamo accorti dell’inganno di cui ci avevano avvertito in molti da oltre oceano, dove il “Nuovo” aveva origine – Lewis Mumford solo per citare qualcuno nella folta schiera dei rimasti inascoltati – ora che le città sono rimaste intrappolate tra la perenne carenza di spazi e la congestione, dovremmo parlare di riscoperta dello spazio pubblico per migliorare la vita quotidiana di tutti. Eppure, noi in Italia, restiamo bloccati in dibattito puerile che ondeggia tra le tifoserie del momento: pro- o -contro il tram, pro- o -contro le biciclette, pro- o -contro la mobilità condivisa.
Genova, purtroppo, non fa eccezione: fin quando il dibattito non metterà al centro la qualità dello spazio urbano, alla ricerca di una visione futura della città, non si riuscirà a sfruttare le nuove opportunità di finanziamento offerte dal Ministero dei trasporti per cambiare, in meglio, la quotidianità dei cittadini e di tutti quelli che frequentano la Superba. Metropolitana, tram e filobus sono solo degli strumenti: se non inquadrati in una pianificazione di ampio respiro – prima di tutto urbanistica – restano solo mezzi di trasporto. Il confronto tra una passeggiata a Genova e una a Nizza, oggi, vale più di qualunque spiegazione.
Tornando a Mumford, non si tratta di scegliere se realizzare o meno una infrastruttura: il tema che tutti dovrebbero avere ben chiaro, amministratori e cittadini, è quello di realizzare, finalmente, città “per i bambini e gli innamorati e non per le automobili”.
Sia chiaro, nessuna crociata, l’automobile è un mezzo utilissimo. Ma se mettiamo l’auto al centro della progettazione della città, finiamo con l’avere città fatte di strade e parcheggi. Se viceversa mettiamo le persone al centro del progetto urbano potremo (ri)scoprire un uso diverso degli spazi urbani, un uso più adatto ai bisogni di socialità e spazi verdi.
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2) La metropolitana di Genova presto crescerà, ma lo continuerà a fare in modo estremamente lento, nonostante i costi ridotti delle tratte realizzate in superficie. C’è inoltre una tendenza a rimandare nel prendere decisioni, ogni giunta cambia i piani di quella precedente (nel bene e nel male). La sensazione è che ciò accada perché la società civile e il tessuto economico non si espongono mai abbastanza nel ribadire la necessità di avere un mezzo performante e veloce a servizio della città, ne è un esempio il grande polo dell’ospedale San Martino che per l’ennesima volta deve rimandare il sogno di avere una stazione nelle vicinanze. Può essere questa una chiave di lettura realistica all’interno di una Genova che, sulla carta, vorrebbe tornare grande ma che si sta invece rimpicciolendo in termini di abitanti e imprese?
Questo accade proprio perché manca uno strumento di piano trasversale e di ampio respiro: i trasporti sono solo un mezzo, prima di dedicarsi alle analisi delle alternative bisogna capire dove si vuole andare, quali obiettivi si vogliono realmente raggiungere per la città.
Il Piano urbano della mobilità sostenibile (Pums) non è uno dei tanti piani dei quali la legislazione italiana abbonda. Il Pums risponde a grave mancanza: nel nostro Paese il Piano urbano del traffico (Put) già dal 1993 è reso obbligatorio (art. 36) dal cosiddetto “Nuovo Codice della strada” per i comuni oltre 30 mila abitanti. Il Put è un insieme coordinato di interventi per il miglioramento delle condizioni della circolazione stradale nell’area urbana: è un piano attuativo che dovrebbe intervenire a valle di un documento programmatico generale della mobilità. Ma il Piano urbano della mobilità – Pum, con la legge 340/2000 Pums, guadagna la sostenibilità – non è mai divenuto obbligatorio. Formalmente non lo è nemmeno oggi: o meglio lo è, indirettamente, perché il DM 396/2019 lo ha reso condizione necessaria per le città metropolitane e le città con oltre 100 mila abitanti per la richiesta di qualunque forma di finanziamento sulle infrastrutture della mobilità.
Perché i Put sono stati resi subito cogenti mentre i Pums lo sono diventati solo oggi, a vent’anni dalla loro istituzione? Perché le nostre città sono fondate sull’automobile: il Codice della Strada, definisce la nostra concezione dello spazio pubblico come spazio che deve sempre e comunque concedere lo spazio di manovra in sicurezza di una automobile.
Con un parallelo matematico: se x indica la larghezza di una strada ed f la funzione che definisce lo spazio pubblico che soggiace a quella strada, il limite della nostra funzione f per x che tende a zero è una automobile. Cioè nelle nostre città, anche nelle periferie sorte spontaneamente senza una pianificazione, ciascuna proprietà si autolimita affinché lungo il rispettivo margine sia garantito il passaggio di almeno un senso di marcia automobilistico. Nessuno realizza autonomamente dei marciapiedi: non importa che ci sia spazio per muoversi in sicurezza, scendendo dalla propria auto. Spazio sicuro per camminare, aprire la propria cassetta postale, aprire in sicurezza il proprio portone senza rischiare di essere investiti.
Una città bella da vivere è una città nella quale la funzione che definisce lo spazio pubblico ha come limite per lo spazio disponibile che si riduce a zero, la persona non una automobile. La città deve mettere al centro della scena le persone non le automobili, che sono e restano un mezzo di trasporto. Ma in questo momento le automobili restano il fine attorno al quale organizzare la nostra vita: d’altro canto gli standard urbanistici (DM 1444/68) ci parlano di spazio minimo pro-capite per parcheggi pubblici e privati. Mica contemplano la dotazione minima obbligatoria di marciapiedi, di piazze oppure di fermate per il trasporto pubblico.
Solo cambiando prospettiva – un processo tutt’altro che semplice e che dovrebbe essere accompagnato da un dibattito nazionale – Genova potrà riflettere sui limiti del proprio sviluppo come città moderna. Una città nella quale la metropolitana è nata su una infrastruttura tranviaria (la Galleria della Certosa) pensata all’inizio del secolo scorso: da allora non si è più riusciti a immaginare una infrastruttura non stradale che potesse ricucire il Levante con il Ponente. E che potesse servire anche in maniera efficace la Valpolcevera e la Val Bisagno.
Cosa ha, Genova, oggi? Una metropolitana evidentemente incompleta. Una espansione novecentesca che si estende a est da Albaro a Nervi. E un Ponente che resta isolato, lungo il quale entro qualche anno sarà disponibile una infrastruttura ferroviaria che potrebbe essere dedicata alla sola mobilità urbana. Prima di pensare a una moltiplicazione di diverse tecnologie è opportuno ricordare che le rotture di carico sono la spada di Damocle dei sistemi di trasporto: prevedere un cambio di 3 mezzi lungo una direttrice di spostamento, equivale a perdere l’80% della domanda potenziale su quella direttrice.
La metropolitana può essere ripensata? Ci sono modelli di servizio che potrebbero confacersi meglio a una città come Genova? La metropolitana non raggiungerà gli anelati 100.000 passeggeri giornalieri aggiungendo una o due nuove stazioni per lato: li raggiungerà solo se si saprà reinventare come sistema in grado di unire Ponente e Levante.
Anche il discorso tram-sì, tram-no è pretestuoso: il tram non è un sostituto dei bus ordinari ma è un mezzo di trasporto superiore, per prestazioni e capacità. E a Genova non si può pensare al tram se prima non si risolve il dilemma del futuro assetto della metropolitana. Chiudo il cerchio: è mai stata eseguita una analisi costi benefici del trasformare l’attuale metropolitana in una sede per servizi tramviari (tipo pre-metro di Bruxelles, oppure MUNI Metro di San Francisco, una dorsale in galleria dalla quale si diramano linee tramviarie di superficie verso le periferie)?
[Continua…]
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